Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 23 novembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Carotenoidi quali nuovi farmaci per prevenire e trattare la malattia di Alzheimer. La capacità dei carotenoidi di inibire l’aggregazione dei peptidi β-amiloidi ha motivato la valutazione sperimentale, oltre che della luteina, ritenuta il composto anti-amiloidogenico per eccellenza, di criptocapsina, astaxantina, fucoxantina e dell’apocartenoide bixina da parte di Lakey-Beitia e colleghi. L’esito della sperimentazione ha dimostrato la potente azione anti-amiloide esercitata da tutti i composti carotenoidi, specialmente quelli in grado di attraversare la barriera ematoencefalica. Le potenzialità evidenziate incoraggiano il prosieguo della sperimentazione. [Lakey-Beitia J., et al. Int J Mol Sci. 20 (22) pii: E5553, 2019].

 

Psicofarmaci tradizionali hanno mostrato efficacia anti-cancro. Il valproato sodico, attualmente prescritto come stabilizzante dell’umore, gli antidepressivi fluoxetina ed escitalopram ossalato e l’antipsicotico atipico aripiprazolo hanno mostrato efficacia sperimentale per il trattamento dei tumori cerebrali. Zhuo e colleghi hanno realizzato una rassegna di tutti gli studi condotti in questo campo e forniscono suggerimenti per le nuove ricerche che potrebbero portare alla definitiva introduzione di queste vecchie molecole nella cura delle neoplasie dell’encefalo. [Cfr. Front Pharmacol. 10: 1262 eCollection 2019].

 

Mania ed eccitazione nei bipolari: il recettore P2X7 nuovo bersaglio terapeutico. Il recettore purinergico P2X7 svolge un ruolo centrale nella neuroinfiammazione, nel mantenimento dell’attivazione microgliale, nel danno e nella morte dei neuroni, tutti elementi della neuropatologia del disturbo bipolare. Gubert e colleghi, in un modello murino di mania indotta da D-metamfetamina, hanno dimostrato l’efficacia di un antagonista di P2X7 (brilliant blue) nel normalizzare i parametri alterati dallo stato di eccitazione. [Cfr. Gubert C., et al. Mol Neurobiol. AOP – doi: 10.1007/s12035-019-01817-0 Nov. 15, 2019].

 

Alzheimer: il caso di una donna di 76 anni suggerisce un nuovo approccio terapeutico. Al meeting annuale della Society for Neuroscience in Chicago (Illinois, USA) è stato presentato il caso di una donna colombiana di Medellin appartenente a una famiglia nella quale numerosi membri avevano manifestato segni e sintomi della malattia di Alzheimer in età presenile. Nel 2016 la donna, allora settantatreenne, si è recata a Boston per sottoporsi ad una valutazione clinica mediante risonanza magnetica, esami bioumorali con ricerca di marcatori e studio analitico del genoma. L’analisi genetica ha rilevato una rara mutazione, responsabile della demenza dei suoi congiunti.

Lo studio della paziente è proseguito, per cercare di comprendere la ragione della sua resistenza allo sviluppo della neurodegenerazione. I ricercatori hanno identificato un’altra rara mutazione, ma questa volta in un gene ben conosciuto e studiato da tempo per gli alleli di rischio della demenza neurodegenerativa più grave e frequente: APOE. Si ritiene, in mancanza di prove del contrario, che questa mutazione abbia reso la paziente resistente allo sviluppo della malattia. Questo caso suggerisce la possibilità di prevenire o trattare una parte di casi di malattia di Alzheimer agendo su APOE: un’idea certamente non nuova per chi segue questo campo di studi ma, forse, un po’ troppo frettolosamente accantonata. [Cfr. Science 366 (6466): 664, Nov. 8, 2019].

 

La citolisina di un ceppo di enterococco fecale accresce le morti per cirrosi alcoolica. Gli effetti psicotropi ansiolitici e di miglioramento del tono affettivo, associati all’attivazione del sistema a ricompensa che fa capo all’area tegmentale ventrale (VTA), costituiscono la ragione principale dell’assunzione acuta di alcool e dello sviluppo di alcool-dipendenza. L’eccessivo consumo di alcool etilico, che già in fase acuta determina un’epatopatia a tendenza steatosica caratterizzata dalla maggiore espressione genica di enzimi attivi nelle prime fasi della fibrillogenesi responsabile dell’evoluzione fibrotica delle epatopatie croniche, è un’importante causa di morte per cirrosi epatica. La grave patologia può essere trattata solo con il trapianto di fegato, che spesso non è praticabile per indisponibilità dell’organo. Ma un aspetto dell’evoluzione non compreso di questa patologia è la differenza nella rapidità di progressione fino all’esito fatale. In una percentuale dei casi la sopravvivenza è brevissima.

La causa di questa differenza è stata individuata da Bernd Schnabl dell’Università della California a San Diego (UCSD) e colleghi: alcuni ceppi del saprofita intestinale Enterococcus faecalis rilasciano una citolisina, ossia una tossina che causa morte cellulare; solo il 5% delle persone sane presenta questo ceppo, ma fra gli ammalati di epatopatia alcoolica la quota è del 30%. Dopo 180 giorni dal ricovero in ospedale, l’89% dei pazienti positivi alla citolisina è deceduto, mentre il 96,2% di quelli negativi è sopravvissuto. Gli autori dello studio hanno trovato in campioni di feci di pazienti affetti da epatopatia alcoolica una concentrazione di Enterococcus faecalis 2700 volte superiore a quella dei campioni provenienti da persone astemie.

Il nostro presidente, Giuseppe Perrella, ha proposto l’esecuzione routinaria negli alcoolisti della determinazione nelle feci della quota di Enterococcus faecalis e del ceppo produttore di citolisina. [Cfr. Yi Duan et al. Nature 13 Nov online 2019; v. anche sintesi in Eva Frederick in Science online 13 novembre 2019].

 

I cani, come noi, associano i suoni acuti a oggetti che si levano in alto. Probabilmente l’organizzazione del sistema nervoso centrale dei mammiferi ha comportato, nel corso dell’evoluzione, dei vincoli di rapporto fra gruppi neuronici che determinano la tendenza ad associare le frequenze sonore acute, come quelle di un fischio o di un sibilo, a un oggetto che si solleva in alto o solca l’aria, piuttosto che a qualcosa che rimane fermo.

Numerosi studi condotti in passato hanno rilevato la tendenza umana ad associare toni musicali acuti e timbricamente brillanti al concetto astratto del levare e dell’innalzare, e alcuni evoluzionisti hanno interpretato questa bias quale conseguenza delle esperienze accumulate dal tempo degli ominidi protoumani che udivano i fischi del canto degli uccelli nell’aria e le basse frequenze delle vocalizzazioni degli animali terrestri di grossa taglia. Alternativamente, sono state proposte interpretazioni cognitivo-culturali legate ai modi della simbolizzazione associativa trasferita nel linguaggio ed evidente nell’espressione verbale “toni alti”, per indicare quelli acuti, e “toni bassi”, per indicare quelli gravi.

Ma la spiegazione di questa associazione potrebbe avere una base neurobiologica in un’origine precedente l’evoluzione della nostra specie in quanto, con ingegnosi esperimenti, un piccolo gruppo di ricercatori che include Anna Korzeniowska, ha dimostrato la presenza di questo collegamento nel cane. La ricercatrice sostiene che l’associazione dimostrata in 101 canidi di un tono acuto con il concetto di più alto risieda nella condivisione di un vecchio meccanismo di adattamento del cervello dei mammiferi. [Korzeniowska A. T. et al. Audio-visual crossmodal correspondences in domestic dogs (Canis familiaris). Biology Letters - online 13 Nov. 2019].

 

Il “dente del dragone” consente di classificare il Gigantopithecus blacki alto 3 metri. Lo studio di proteine provenienti dallo smalto dei denti ha permesso di classificare questo primate vissuto approssimativamente fra 2 milioni e 200.000 anni fa. Frido Welker, genetista evoluzionistico dell’Università di Copenaghen, e colleghi hanno dissolto ogni dubbio circa la possibilità che questa specie gigante, che poteva raggiungere quasi i tre metri di altezza, appartenesse biologicamente agli ominidi, comparando la composizione in aminoacidi di sei proteine dello smalto dentale condivise con oranghi, gorilla, scimpanzé, macachi e altre specie. Questo primate gigante sembra essere strettamente correlato all’orango: le due linee si sarebbero separate – secondo i calcoli compiuti – tra 12 e 10.000.000 di anni fa. [In Nature – Nov. 13, 2019].

 

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BM&L-23 novembre 2019

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